Cinéaste, écrivain, poète situationniste et dissident punk notoire : F.J Ossang s’est toujours établi à la marge. 9 Doigts, qui signe son grand retour dans le paysage cinématographique après six ans d’absence, ne déroge pas à la règle. Mal de mer s’abstenir : la traversée maritime qu’entreprennent Kurtz (chef de gang lunaire interprété par le génial Damien Bonnard), Magloire (un petit malfrat à demi-otage incarné par Paul Hamy) et un prétendu médecin sapé comme un dandy d’il y a deux siècles (Gaspard Ulliel, qui d’autre ?) est de tous les dangers. Au sous-sol, des containers chargés de polonium prêts à exploser et des idées noires plein la tête des passagers. Sur le rythme de MKB Fraction Provisoire, ce périple expérimental en eaux troubles ravira les derniers mohicans du punk – et les amoureux du cinéma expressionniste, dont Ossang est l’un des plus fiers héritiers.
Comme Bertrand Mandico, F. J. Ossang, construit depuis les années 80 une oeuvre assez confidentielle nourrie de références et d’images anciennes (de Murnau à David Lynch). 9 Doigts, son cinquième long métrage, est son film le mieux produit. Il est servi par un beau casting mêlant jeunes premiers (Paul Hamy, Damien Bonnard, Alexis Manenti) et comédiens confirmés (Pascal Greggory, Gaspard Ulliel). Toujours en proie aux expérimentations nouvelles, 9 doigts s’annonce comme un film noir entre thriller, conte onirique et fable apocalyptique.
Avant de pouvoir vous ruer sur les salles, quelques occqsions de le voir à Rotterdam le 28 Janvier (1ere projection) puis aux Dyonisiennes de Saint-Denis le Dimanche 11 Février
9 DOIGTS / 9 FINGERS de F.J. Ossang
(NB, 99′, France-Portugal 2017) Sélection « Signatures »
47° Festival International de ROTTERDAM 2018
LE 28 JANVIER 2018
«À quoi bon un cinéaste en temps de manque? À faire parler la Terre! Entrer dans le secret d’un Soleil, d’une brume et du magnétisme tellurique – via les indigènes du secteur…»
(F. J. Ossang, Mercure insolent)
La sovversione dell’anima è declinata nelle più variegate sfumature, dal bianco conducono al nero, e dalle tenebre scivolano nuovamente verso chiarori luminosi, la rifrazione della luce accende i grigi, illuminandoli di scintille che accendono la notte; barlumi lattescenti scivolano liquidi tra le pieghe più nascoste della mente umana.
Rileggendo le trame del noir, F. J. Ossang libera la materia filmica plasmandola in un ibrido di contaminazioni fra generi e forme con un’esplosione anarchica, creando un corpo unico, un organismo libero fagocitante esperienze e derive narrative.
La storia narra di un cargo in viaggio alla volta di una “virtual zone”, l’isola di Nowhereland, una nave fantasma in rotta verso l’isola che non c’è, un non luogo dove sono diretti Magloire (Paul Hamy) e strambi personaggi, a bordo una cassa di polonio, materiale esplosivo pronto a detonare. «La nave volava, si schiantava contro le mantelline, stellava i muri. Qua e là, negli intervalli di notte, fra i lampioni, si vedeva il dettaglio di un volto rosso dalla bocca spalancata, di una mano che indica il bersaglio.» (J. Cocteau 2015, pag. 17)
Un percorso, seguendo il flusso della follia, in un luogo fantastico, come il cinema di Ossang, così insurrezionale e terrorista, come un congegno pronto a tuonare in qualsiasi momento. Antonin Artaud sovente dipingeva come «velenosa» ed «eccitante» la settima arte, la rivelazione di un «imponderabile», di una «liberazione delle forze oscure del pensiero»: l’immagine, nell’accezione artaudiana, è un insieme di forze esoteriche e misteriose che sono pura emanazione «della vibrazione stessa e della stessa origine incosciente, profonda, del pensiero» (A. Artaud 2001, pag. 147).
Ossang dà vita a una struttura anarchica, dotata di uno sconquassante potere tellurico, con un bianco e nero espressionista e dalle nebulose atmosfere oniriche. 9 Doigts, presentato in concorso a Locarno70, dove ha vinto il Pardo per la migliore regia, è un’opera squisitamente punk, una composizione visionaria, vicina per fragore alla musicalità dei New York Dolls o dei britannici Sex Pistols; un’astrazione che dal classicismo del noir anni Quaranta scivola in una rapsodia metafisica dai toni allucinati.
Il regista francese infrange gli schematismi narrativi e si affida a coordinate surreali, la materia visiva sembra essere costituita da enigmi simbolici à la Bosch, tra relitti, acque malmostose e la follia umana che conduce in un labirinto oscuro, un corridoio senza possibilità di evasione dove la mente si smarrisce nella circolarità del tempo per non ritrovarsi mai più. Nelle notti eterne, tra la nebbia, Ossang tratteggia le ombre fosche di uomini persi, coscienze smarrite e menti che vacillano in preda alla malattia, il contagio si diffonde a bordo del cargo e nessuno è immune, tutti sono rapiti dal male, un delirio che confonde il reale e l’immaginifico.
La linea dell’orizzonte che divide il mare dal cielo è sempre più vaga, tutto è confuso nella tenebra, tra paesaggi emersi dalle tele popolate di spettri di Léon Spilliaert e gli scenari cupi di Constant Permeke. Intossicazioni visive e linguistiche conducono i dialoghi a impregnarsi di un organismo poetico la cui carne e (de)composizione meravigliosa è mutuata ora da Lautréamont ora da Burroughs, anche se i riferimenti letterari, inevitabilmente, non possono che spingersi oltre, affondando le radici in Verne, o in Conrad, ma anche nelle parole imbevute di assenzio e oppio di un rimbaudiano Le bateau ivre. Un’Odissea tra i flutti della pazzia di un manipolo di uomini in balia di un delirio, alla ricerca di un oggetto oscuro, metafora della bramosia di possesso, del viaggio verso il piacere delle delizie malevole promesse dall’ignoto.
Da una stazione inizia la corsa sfrenata di un uomo in una notte senza stelle, una fuga che si conclude in un porto dalle acque torve in superficie e agitate nelle profondità da mille correnti contrarie e da maelstrom vertiginosi, come Poe descriveva «un mare d’inchiostro […] dalla vorticosa rabbia del fiotto, che saliva sino sopra la bianca e lugubre sua cresta, urlando e muggendo eternamente» (E. A. Poe 1869, pag. 237).
Dalla corposità materica di un bianco e nero stratificato e cupo, che negli scenari di apertura è vicino a L’uomo di Londra, di Béla Tarr, luoghi di partenze ma non di arrivi, dove, come in 9 Doigts è possibile acquistare un “biglietto per l’inferno”, si passa a una messa in scena chimerica acutizzante la visionarietà dell’opera e le derive mentali di Magloire e del resto della ciurma, avvolti da tempeste marine turneriane e da deliranti proiezioni allucinate, in bilico tra realtà e sogno/incubo.
L’immagine è baconiana, si apre allo sguardo come un urlo lacerante, una deformazione espressiva dei muscoli facciali, in una tensione che è mutamento delle forme, proprio come il cinema di F.J. Ossang, sovversivo e anarchico, un unicum nel panorama attuale cinematografico, che affonda le sue unghie nei primi Lang, ma anche in Ejzenštejn, e poi nel surrealismo di Cocteau, fino a Godard, creando un corpo filmico vibrante, muscolare ed eversivo. Regista, poeta, scrittore e musicista, il francese crea immagini di una potenza incandescente, come Bacon per Deleuze (Logica della Sensazione): «dipinge il grido, in quanto mette la visibilità del grido, la bocca aperta come voragine d’ombra, in rapporto con forze invisibili, che non sono poi altro che le forze dell’avvenire».
Lo sguardo è aperto e deflagrato, si muove su geometrie proprie, una morsa selvaggia che, come il cinema muto di inizio secolo, ha una sua linguistica che può debordare avvalendosi di un immaginifico blasfemo. In 9 Doigts i dialoghi stratificano parole tracimanti e si è sempre sull’orlo del baratro di una catastrofe imminente, in una visionarietà perturbante.
La furia della tempesta scuote l’occhio in un avvilupparsi di vertigini rock, la musica stessa, parte fondamentale nelle opere di Ossang, fa riferimento a presenze fantasmiche presenti sullo schermo, Loi de fantômes, richiamo a un ritorno del passato che contamina il presente ed è la matrice di una mappatura del futuro, del cinema ossanghiano, la dedica sui titoli di coda, meravigliosa dichiarazione d’amore verso un cinema sempre presente e follemente amato: «All my fucking friends are fucking dead!».
Bibliografia
A. Artaud (2001): Del Meraviglioso, Minimum Fax, Roma
J. Cocteau (2015): I ragazzi terribili, BUR, Milano
E. A. Poe (1869): Storie incredibili, Tipografia Pirola, Milano
Titolo: 9 Doigts Anno: 2017 Durata: 99’ Origine: Francia Colore: B/N Genere: Drammatico Produzione: OSS/100 Films & Documents, 10:15! Productions, O Som e a Fúria
Regia: François-Jacques Ossang
Attori: Damien Bonnard (Kurtz), Diogo Dória (Le Capitaine), Elvire (Gerda), Pascal Greggory (Ferrante), Paul Hamy (Magloire), Lisa Hartmann (Drella), Susana Afonso Lopes (Double de Drella), Alexis Manenti (Springer), Lionel Tua (Warner Oland), Gaspard Ulliel (Le Docteur) Soggetto: François-Jacques Ossang Sceneggiatura: François-Jacques Ossang Fotografia: Simon Roca Costumi: Karin Charpentier Suono: Julien Cloquet
A filmmaker, writer, poet and musician; but above all, a nonconformist punk. F. J. Ossang is at the forefront of alternative cinema, which he’s been doing for the last thirty five years. Considered a cult director, his black and white films – imbued with influences from expressionism and noir film – are loved by some because of their stark aesthetic, experimental approach and rebellious messages. On the other hand, though, some dare say his style is pedantic or pretentious. Whatever the case, Ossang is undoubtedly one of the strongest and most respected voices orbiting around non-commercial cinema. We talk with him about 9 Doigts, the film he’s presenting this year at several festivals worldwide, the struggle of being an underground creator and what’s next in his career.
During your stay at Curtocircuíto festival, you’ve stated that punk – a genre of which you’re a banner and icon – is not dead. Nevertheless, it’s clear that its golden era, at least as how we understand it, has been gone for some decades. What makes you think it’s still alive? And how is it now? What makes an artwork, a person or an event punk in 2017?
That surprises me a bit, I don’t think I’ve talked using these terms. On the contrary, I pointed out that punk movement was forty years old this year! I usually get irritated by the way in which some films or theatre plays are described as punk on the pretext that they’re rude, filthy, or rough. The problem: punk is a vague concept. By the way, it is possible to integrate under this term groups as different as The Ramones, or Throbbing Gristle – not to mention punk sixties like the fabulous The Seeds or The 13th Floor Elevators.
On my side, I remember explaining the film project Docteur Chance to Joe Strummer as a “punk film from the Classical Age”! We must take into account that the 20th century is ‘the’ century of punk – and that its first inventors are Arthur Caravan and Jacques Vaché, who disappeared in 1919. From a certain point of view, it can also be argued that the 20th century began in 1905 with the First Italian Futurist Manifesto and the first Russian Revolution, and ended in 1972 with Metallic KO (live album by Iggy & The Stooges).
It’s been seven years since Dharma Guns was born, the previous film to 9 Doigts, the one you’re presenting this year; and there was also a ten-year lapse between Docteur Chance (1997) and Silencio (2007). What are the reasons behind this parenthesis in your cinematographic production? What have you done in each of them?
In cinema, just as elsewhere, I’ve advanced in hostile zone. Each of my films since L’Affaire des Divisions Morturi (1984) has earned me a desert crossing. However, I’ve often written a new script just after the release of a film. Le Tresor des Iles Chiennes was written at the end of 1986, but wasn’t totally produced until 1990, and went out in 1991. After the release of Docteur Chance in 1998, all the doors in France were closed – I only resurfaced with a silent short film shot in 16mm in 2006 made with ten thousand euros, on the initiative of Festival Temps d’Images Portugal, which was awarded with Jean Vigo Award before going to Cannes’ La Quinzaine des Réalisateurs in 2007. Suddenly, I obtained a waiver to re-apply to CNC with Dharma Guns, which I shot in 2009 – but was released in 2011!
Then it went relatively fast, I wrote the book Mercure Insolent in 2012, and the script of 9 Doigts in 2013, but it’s taken me more than three years to find minimum funds, always without the support of any French TV. 9 Doigts was shot in 2016 and selected in Locarno in 2017. And voilà: 1982-2017, five feature films, five short films; the time of a lifetime.
Your comeback to the silver screen has been more than successful: you’ve been awarded as Best Director at Locarno Festival, and Curtocircuíto has held a retrospective of your work. Does it make you think you should spend more time doing cinema?
I’ve spent half of my life trying to make films. Moreover, these are modest budgets, unlike other filmmakers who have been stopped by huge financing. Basically, the budget of my last three feature films has been the same from 1997 to 2017: one million euros. I made them despite seeming impossible. Let’s make a dream: may my next film find fewer obstacles?
On the occasion of this retrospective, I’d like to highlight something that stuck in my mind from your first short film, La Derniere Enigme (1980). In it, there’s a quote by Gianfranco Sanguinetti that talks about how it is that the State is who pulls strings to create terrorism. This is one of the many examples that proves why your artworks are timeless, relevant and contemporary despite the passage of time: they always contain ‘universal truths’. And I think this quote couldn’t be more appropriate in the times we live in…
Exactly. On Terrorism and the State (1979) by Gianfranco Sanguinetti is a great book!
Speaking about short films, you vindicate that they’re a “very interesting format because they are very free, there’s no commercial pressure”. Do you enjoy doing them more than feature films? And if there’s so much freedom in short films, what made you decide to do your first full-length film, and what or who convinced you to go on and do more?
It’s like writing poems or writing a novel. Both can be passionate. Short films can anticipate new forms in total freedom. It’s experimental, in every sense of the word.
Your punk spirit has infused your films with rebellious and denouncing messages. Have you ever thought of approaching filmmaking in a less experimental, more commercial way in order to spread these messages to a larger audience?
Arletty said: “Je suis comme je suis” (‘I am how I am”, in English). I do my best.
9 Doigts has a strong influence from the expressionist movement, not only visually, but also in the lack of (lasting) dialogues. I once heard or read that the incorporation of sound to film struck the visual possibilities of the medium. Do you agree with that? Do you think that visual boundaries could have been explored much further if voice and sound wouldn’t have come in?
The period of silent movies is of an extreme richness – in twenty years, cinema invented almost all its possibilities. Dr. Mabuse der Spieler by Fritz Lang is from 1922. Then, everything is said by Gloria Swanson in Billy Wilder’s Sunset Boulevard: “Ah, those horrible dialogues, there’s no more art!” But in the ‘70s, sound technology allowed us to create silent, noisy, musical and talked movies, all at once. When the idea of doing films struck me, the ‘third age of cinema’ started: it was in 1978 with David Lynch’s Eraserhead or Apocalypse Now by Francis Ford Coppola. But on the other hand, I also love La Maman et la Putain (1973) by Jean Eustache.
Despite your success, as I read some critics about your films, I can find several who qualify your artworks as pretentious and pedantic. Where is the limit between experimentation, a great level of conceptualism, and pretension? Do you think it’s possible that they’re right, even if a little bit? Or do they say so because they can’t understand what you do?
Either they don’t understand anything about my films, or the freedom that I try to exercise – which is high-priced –; it irritates them to the highest degree. Napoleon said regarding ‘Liberté, Egalité, Fraternité’, that everyone wanted fraternity and especially equality, but that nobody was interested in liberty (laughs).
In addition to filmmaker, you’re also a musician and a poet. How do you combine all these interests? How do they influence your life?
I started by writing, then music – and after that, cinema. And the three remained indissolubly linked: not being able to enter by the door, I entered by the window.
Is there any connecting thread between your songs, poems and films? Or do you use different mediums to express different emotions/messages?
That’s for you to say…
After 9 Doigts, what are your future plans? Will you enjoy another break from filmmaking, or will you still create for the silver screen?