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la morte di Pierre Bourdieu, la Francia perde uno degli ultimi maîtres-à-penser
assoluti, quegli uomini che avevano fatto di Parigi, per più
di quarant'anni, il polo intellettuale per eccellenza nell'immaginario
occidentale - uomini del calibro di Sartre, Barthes, Lacan e Foucault.
Anche questo è un segno dei tempi. Nonostante i tentativi,
spesso anacronistici, di difendere la propria preminenza culturale,
la Francia sembra arrendersi all'inevitabile dominio dell'inglese
e dei suoi stili culturali. Era proprio Bourdieu a rappresentare,
con i suoi volumi in traduzione che occupavano le migliori librerie
di Londra o di Berlino e delle università americane, l'ultimo
richiamo internazionale della cultura francofona.
Bourdieu
poteva godere di questa fama globale perché, come era avvenuto
per Foucault (che non a caso l'aveva voluto al Collège de France),
interpretava un ruolo essenzialmente politico. Non era solo il sociologo
dei fenomeni intellettuali e culturali di massa - scuola, arte, scienza
- e dell'esperienza quotidiana - povertà, disagio, dominio
sessuale. Era soprattutto l'ultimo grande critico della società
liberale e delle manifestazioni o distorsioni simboliche del capitalismo.
Tutta la sua ultima produzione, come appare dalle due riviste a cui
si era consacrato ("Actes de la recherche en sciences sociales" e
"Liber") si presenta come una denuncia, rigorosa e documentata ai
limiti dell'ossessione, dell'inganno capitalistico nelle sue forme
molteplici, subdole e avvolgenti. Ciò gli era costato, nella
Francia della difficile coesistenza tra destra e sinistra governativa,
una buona dose di veleno pubblico. Negli ultimi anni erano usciti
libelli polemici - di ambiente universitario più che politico
- in cui venivano presi di mira il suo metodo, il suo supposto strapotere
nella repubblica francese delle lettere, la sua superbia. Un veleno
di cui Bourdieu, che era uomo molto sensibile, deve avere sofferto
molto e che l'ha spinto sempre di più verso l'impegno politico.
Fino a poco tempo fa, era l'infaticabile tessitore di reti internazionali
per l'animazione di una cultura politica anti-liberista e per la costruzione
di un'altra Europa.
Dire
che il richiamo mondiale di Bourdieu era essenzialmente quello politico
significa raccontare solo una piccola parte della sua storia. C'è,
per cominciare, lo studente povero che conquista l'agrégation
alla prestigiosa Ecole Normale in un'epoca di imperante heideggerismo
- una corrente per cui Bourdieu provava una profonda avversione (come
risulta da diversi saggi degli anni '70 e '80 in cui il linguaggio
"profetico" di Heidegger viene smontato fino alle sue origini di classe,
il mandarinato borghese dell'università tedesca). C'è
il ricercatore sul campo in Algeria, autore di alcune tra le più
belle analisi dell'influsso del colonialismo sulla cultura tradizionale
(Sociologie de l'Algerie, del 1958, e Le déracinement del 1964,
con A. Sayad). C'è l'analista delle istituzioni incaricate
di trasmettere la cultura dominante, dalla scuola all'arte, dall'università
alla letteratura, dalla fotografia ai salotti intellettuali (La réproduction,
1970, La distinction, 1979, Homo academicus, 1984, Les règles
de l'art, 1992). C'è anche il teorico capace non solo di rivisitare
liberamente le categorie marxiane alla luce di una sensibilità
sociologica modernissima (i concetti legati all'intuizione del "capitale
culturale"). E soprattutto l'infaticabile animatore di una cultura
sociologica aperta, senza pregiudizi, a quanto di meglio proveniva
dall'altra parte dell'Atlantico. Si deve a Bourdieu, per esempio,
se la Francia - condizionata da sociologi con la feluca come Aron,
Touraine e Boudon - ha potuto conoscere l'opera di un ricercatore
atipico come Erving Goffman.
Questa
molteplicità, questa capacità di fare sociologia a 360
gradi - in un'epoca in cui la sociologia si stava istituzionalizzando
e banalizzando anche in Francia - appare compiutamente in quella che,
secondo me, è la sua opera più bella e meno cosnosciuta
da noi, La misère du monde, 1994. In questo lavoro monumentale,
che Bourdieu ha caparbiamente voluto e organizzato, facendo lavorare
i suoi collaboratori migliori e (oggi) più noti (da Boltanski
a Champagne, da Sayad a Wacquant), parlano, sotto forma di interviste
e storie di vita, gli uomini comuni, le vittime del liberismo, dei
pregiudizi e della violenza della società opulenta: migranti,
insegnanti, lavoratori pubblici, operai, pensionati, casalinghe. Un
coro articolato di voci che sostituiscono la pretesa sociologica di
ricostruire la verità sociale dalla prospettive anguste dei
dipartimenti universitari. Nelle considerazioni finali, Bordieu si
spinge quasi a teorizzare un ritiro dello sguardo sociologico dallo
studio degli ultimi - gli anonimi, i marginali, i reietti. Una posizione
metodologica radicale che non va confusa con l'empirismo, trattandosi
piuttosto di un'intuizione della fecondità della letteratura
nella descrizione sociale. Sta di fatto, comunque, che quest'opera
di quasi mille pagine si fa leggere come una catena aperta di romanzi-verità
- talmente lontani dalle croste letterarie da essere divenuti, in
diversi casi, testi teatrali, e di successo. Nessun editore italiano
ha finora accettato, e forse nemmeno pensato, di tradurlo. Ma, in
un paese che pure disbosca foreste per farci conoscere tante mediocrità
di richiamo, c'è da sperare che ora qualcuno ci ripensi.
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