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eri
è morto un maestro che odiava la nozione di maestro. Uno di
quei rari umani che ai propri lettori e discepoli regalano occhiali
magici con cui guardare il mondo, la società, gli individui,
le motivazioni: sono lenti mentali che consentono all'improvviso di
scorgere impensati paesaggi, inopinate configurazioni umane, ci offrono
alla comprensione quel che prima appariva terra incognita.
Ieri ci ha lasciato Pierre Bourdieu, a soli 71 anni. E la magia che
regalava a chi lo leggeva, gli parlava, studiava con lui, era la magia
più antica, più sovversiva, più trasgressiva
del mondo: quella della buona, vecchia ragione.
Non è esagerato affermare che se Immanuel Kant sottopose la
ragione umana al tribunale della ragione, Pierre Bourdieu ha cercato
per tutta la sua operosissima vita di sottoporre le ragioni della
società al tribunale della ragione sociale: uno dei suoi volumi
più ponderosi, La distinzione (1979), porta un sottotitolo
inequivocabilmente kantiano, Critica sociale del giudizio. Il suo
colossale progetto di analisi della società umana, del suo
strutturarsi in campi, e delle loro reciproche interazioni, ha un'ambizione
globale e un procedimento sistematico. Un progetto che si è
articolato - oltre che in più di trenta volumi - in quella
straordinaria opera collettiva che è stata ed è la rivista
che lui ha fondato nel 1976 e da allora ha diretto, Actes de la recherche
en sciences sociales.
In un'epoca che esalta la ragione frammentaria e il pensiero debole,
Pierre Bourdieu è andato contro corrente: il suo è davvero
un pensiero forte. In questo senso, hanno ragione le biblioteche universitarie
statunitensi che collocano le sue opere negli scaffali delna filosofia
piuttosto che della sociologia, disciplina sotto cui è di solito
etichettato. Un'etichetta che per decenni gli ha ostruito l'ingresso
nella cultura italiana, così ostile alla sociologia: da destra
- a causa dello storicismo idealista gentiliano e crociano che vedevano
nella sociologia solo una volgare spremuta di positivismo determinista;
e da sinistra - per cui la sociologia era solo la risposta capitalista
a Marx.
Contro questi luoghi comuni, il sociologo Pierre Bourdieu ha sempre
rivendicato la sua ascendenza marxiana: "Marco, ma cosa ho fatto per
tutta la vita se non articolare l'idea marxiana per cui la società
è strutturata in classi?" mi è sbottato un giorno, in
una stanzetta della Maison des Sciences de l'Homme, a Boulevard Raspail
a Parigi. Fin troppo modesto. In realtà il compito che Bourdieu
si è prefisso è stato quello di dirimere il nodo teorico
che la tradizione marxista ha sempre lasciato irrisolto e che nel
marxismo volgare è noto come "rapporto tra struttura e superstruttura"
("e solo il fatto di chiamarlo così rende il problema insolubile",
notava Bourdieu).
Già il suo primo studio, del 1961 (Sociologie de l'Algérie)
riguarda la materialità economica dello scambio simbolico in
Kabilia. Vi si vede subito l'allievo di Karl Marx, Max Weber, e soprattutto
Emile Durkheim, che dimostra come - con buona pace del buonismo polanyano
e del terzo settore - il dono è sempre falsamente disinteressato,
perché attende sempre di essere ricambiato.
Siamo negli anni '60, con Jean-Paul Sartre a sostenere che "l'intellettuale
è un tecnico del sapere pratico" e Louis Althusser a descrivere
la riproduzione ideologica come opera di apparati. La rivoluzione
copernicana di Bourdieu sta nel sostituire alla domanda sartriana
"cosa è un intellettuale?", la domanda "come si diventa intellettuali?",
e quindi "che interesse ha una persona a diventare intellettuale?".
La risposta, Bourdieu la cerca allora nelle inchieste sugli iscritti
alle Grandi Scuole francesi, sulle loro origini, le loro pratiche
culturali. Da qui nasce Les héritiers: les étudiants
et la culture (1964) scritto con il primo dei suoi discepoli, Jean-Claude
Passeron, in cui si dimostra come nella società borghese il
titolo di studio costituisce l'equivalente di quel che nel feudalesimo
era il titolo nobiliare. Simili i meccanismi d'inflazione: all'inizio
il titolo più elevato era barone; poi - per compensare l'inflazione
di baroni - si dovettero creare i conti, poi, i duchi, poi gli arciduchi,
poi i principi. Così, a sancire l'appartenenza alla classe
dominante, un tempo bastava la maturità classica (indispensabile
allora per essere ammessi al corso allievi ufficiali), poi servì
la laurea; ora, con l'inflazione di lauree, serve un titolo post-universitario.
E se i cadetti della nobiltà venivano mandati nel clero o nelle
colonie, quelli delle famiglie borghesi diventano giornalisti, fotografi,
pubblicitari.
Come si vede, quella di Bourdieu è nello stesso tempo una sociologia
dei beni simbolici e una disanima dei meccanismi di riproduzione della
classe dominante. Ed è facile capire quanto sia stato importante
questo libro quando è scoppiato il maggio '68 e gli studenti
parigini se lo sono trovati là, bello e pronto, a descrivere
i meccanismi di selezione e riproduzione contro cui lottavano. Les
héritiers è stato alla Sorbona quello che a Berkeley
fu L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse.
Les héritiers è la prima di una lunga serie di ricerche
in cui Bourdieu disvela le costellazioni di gusti, pratiche culturali,
strategie professionali che formano le traiettorie sociali di ogni
persona e a loro volta ne vengono determinate.
Anche dai suoi discepoli, gli è stata spesso rivolta l'accusa
di determinismo (una delle migliori caratteristiche di Bourdieu come
maestro è che tutti i suoi migliori allievi, e coautori dei
suoi libri, alla fine lo hanno criticato, ne hanno preso le distanze,
e hanno seguito la propria via sociologica: così Passeron,
così Jean-Claude Chamboredon, Luc Boltanski...). Ma è
un determinismo che, per poter essere efficace, deve farsi meno cogente,
più elastico: una delle sue fonti epistemologiche è
Gaston Bachelard, che non è proprio un positivista. Così,
al posto del capitale inteso in senso puramente economico, Bourdieu
introduce tre forme diverse di capitale, a) economico, b) culturale
e c) sociale, e mostra le interazioni, i travasi tra questi tre capitali.
Anche le posizioni di classe si articolano: gli intellettuali vanno
visti di volta in volta come frazione dominata della classe dominante
oppure come frazione dominante della classe dominata, e il viavai
fra queste due posizioni è di per sé un fattore determinante
delle loro pratiche.
E' inutile qui mettersi a fare il Bignami della complessissima teoria
sociologica di Bourdieu. Basti un esempio: per Bourdieu la percezione
che ognuno di noi ha della propria posizione sociale non coincide
mai con questa posizione: cioè, ognuno ha un'immagine alterata,
errata di sé nella società. Il punto è, dice
Bourdieu, che la distanza tra la nostra percezione di noi e la nostra
reale posizione cresce man mano che scendiamo nella scala sociale:
è così che, per esempio, un impiegatuccio parla con
disprezzo del "popolino". E poiché noi agiamo in base al punto
da cui pensiamo di partire, questo divario spiega come mai gli errori
di strategia non sono mai cantonate individuali ma tendenze sociali.
Ecco perché per tutti gli anni '70 e '80 nessuno ha vivisezionato
la retorica della sinistra (del "discorso dominato legittimo") in
modo più spietato di Bourdieu: perché la lente davvero
sovversiva degli occhiali che ci ha regalato è quella di svelare
le strategie di denegazione e di eufemizzazione: un artista non potrà
mai perseguire il proprio interesse se non è sinceramente convinto
del proprio disinteresse (l'arte per l'arte); se appena è cosciente
di voler guadagnare e fare carriera, non ci riuscirà mai. Ma
questo disvelamento è possibile solo se il sociologo si pone
1) in rapporto autoriflessivo e critico con il proprio essere sociologo,
e 2) al di qua della politica.
1)
In uno sguardo sospettoso con il proprio essere sociologo, per non
cadere nel tranello della meta-sociologia che si presenta come la
teoria sociologica di tutte le sociologie possibili. Da questo punto
di vista, la lezione introduttiva (La leçon sur la leçon)
che Bourdieu tenne al Collège de France nel 1982 costituisce
nella sua brevità un classico del pensiero che ha la stessa
succinta profondità di un'Epistola a Meneceo, e che tutt'oggi
suscita riflessioni ed echi vertiginosi.
2)
Al di qua della politica, perché la guarda come un campo
relativamente autonomo, in cui gli agenti operano spinti dalle proprie
traiettorie sociali, dai propri habitus. L'impegno politico del
sociologo si rifiuta al libro inteso come comizio politico. Fa politica
senza dirlo, smontando le motivazioni sociali del discorso militante
e filosofico, come ha fatto Bourdieu in quel classico della demistificazione
del galateo filosofico che è L'ontologia politica di Martin
Heidegger (1988) dove infine la filosofia non viene letta come pretende
di esserlo, cioè ontologicamente, all'indicativo presente
della terza persona singolare ("l'esserci è"), ma contestualizzandola
e senza facili cortocircuiti, alla Farias, tra heideggerismo e nazismo.
Il sociologo fa politica ricercando sul campo i meccanismi della
"costruzione politica dello spazio" geografico e sociale, come nella
straordinaria, commovente opera collettiva del 1993, in cui compaiono
gli ultimi testi più densamente teorici: La Misère
du monde, un volumone di 950 fitte pagine che fu venduto a 300 mila
copie in Francia e tradotto in 13 lingue.
Però nell'ultimo decennio, Bourdieu è come venuto meno
al proprio precetto e i suoi libri non sono più stati intrisi
di politica, ma direttamente politici. E' stato un atteggiamento di
prodigalità: ha speso il suo nome, il suo prestigio, la sua
energia per tutte le cause, a cominciare da Attac, che tanti altri
"maestri" hanno disertato. Dopo aver polemizzato tanti anni con Sartre
(e con Foucault), Bourdieu ha come ripreso nelle proprie mani il testimone
che Jean-Paul aveva lasciato, quello dell'impegno. I suoi libri però
ne hanno perso interesse, hanno somigliato sempre più a pamphlet,
sempre meno a quegli appassionanti viaggi nell'ignoto sociale cui
Bourdieu ci aveva abituati.
Con lui, ieri si è chiusa definitivamente la grande stagione
in cui la Francia ha insegnato al mondo, da Sartre a Barthes, da Foucault
a Deleuze. Ma Bourdieu ha una dote specifica, un'ironia un po' spaccona
dovuta forse alle sue origini guascone (come d'Artagnan, è
nato nel Bearn), un modo sorridente di smontare la società
umana, con il ciuffo ribelle sulla fronte ampia e il bel viso aperto,
come quando per compiti ci dette a scelta questi due temi: a) "Spiegare
perché una persona ragionevole sarebbe pronta a tutto, anche
a vendere la madre per essere nominato decano di un istituto di filologia
romanza"; b) "Spiegare perché un salumiere investe una quantità
di milioni sufficienti a comprare un altro negozio, solo perché
suo figlio impari a memoria esametri greci".
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